- [Arciconfraternita di S. Giovanni decollato, Arciconfraternita della Misericordia dei Fiorentini] (1488)
Il 24 aprile 1488 "comensorno quelli della Compagnia de Battuti ad accompagnare quelli che s'andavano a giustiziare"(1); la loro prima riunione a Roma avvenne qualche giorno dopo, l'otto maggio(2).
La Compagnia dei Battuti di S. Maria della Croce al tempio (detta Compagnia dei Neri) era sorta a Firenze nel 1355 e, più di un secolo dopo, la nazione fiorentina riproponeva a Roma la pratica dell'assistenza ai condannati a morte.
Fino allora erano esistite, almeno dall'inizio del XIII secolo, diverse confraternite laiche dedicate alla sepoltura, ma si occupavano esclusivamente dei propri membri ed erano estranee all'azione della giustizia. L'estensione dell'attività di tali confraternite al di fuori della cerchia dei propri accoliti era resa impossibile dalla presenza della Romana fraternitas, l'associazione clericale impegnata nell'assistenza e nell'organizzazione funeraria. L'ostilità della Romana fraternitas verso i sodalizi laici condusse alla normativa di Gregorio IX del 1237, che vietò la formazione di associazioni autonome laiche per quel tipo di attività (3). Nonostante ciò una delle principali azioni delle confraternite rimase comunque l'assistenza e l'accompagnamento dei defunti; dei propri, come avveniva a Bologna con il movimento dei Disciplinati (i "Battuti") (4), e con un'assistenza allargata anche a coloro che non erano membri della confraternita, come avveniva in molte città - in particolare a Firenze - con le confraternite della Misericordia, che sostenevano i malati e accompagnavano i morti alla sepoltura. A Roma i primi ad uscire dai limiti dell'assistenza verso i propri membri furono - durante la peste del 1448 - i Fiorentini del sodalizio della Pietà, costituitisi in confraternita nel 1456 (5). Dal 1538 fu la Confraternita della Morte ad occuparsi dei poveri che non avevano sepoltura; con la bolla di Giulio III del 1552 fu denominata Arciconfraternita dell'Orazione e Morte e svolse la sua attività fino al 1896 (6).
L'assistenza ai condannati a morte dalla giustizia comportava invece un impegno di diversa natura.
Alcuni fiorentini stabilitisi a Roma, considerando che i poveri rei condannati a morte dalla giustizia non avevano quei aiuti spirituali, e temporali per ridurli con tutta carità, anzi assicurarli meglio nella via della salute eterna tanto importante, risolvettero (non curando perciò gli umani rispetti) di assisterli fino all'ultimo punto con vestirsi di sacchi negri cinti di corda colla testa nel bacile di S. Giovanni Battista nella fronte" (7).
Con la bolla di Innocenzo VIII del 25 febbraio 1490 fu istituita la Confraternita per il conforto dei condannati a morte, sotto la protezione del patrono di Firenze, S. Giovanni Battista (8). La sede del sodalizio era presso la chiesa di S. Maria della Fossa, sotto il Campidoglio, dove in seguito, dal 1538 al 1588, fu costruita la chiesa di S. Giovanni decollato(9).
Dal XVI secolo il Tribunale del Governatore di Roma, in progressivo consolidamento, ed il Tribunale del Senatore, la cui autorità in materia penale fu stabile almeno fino alla metà del Seicento, costituivano il perno dell'organizzazione della giustizia penale romana(10). La loro intensa attività "criminale", e le conseguenti numerose condanne a morte eseguite nelle piazze della città, furono il contesto in cui maturò la necessità di affrontare la morte "per via di giustizia". Dal 1542 l'istituzione del Tribunale del S. Uffizio impose ancor di più il problema della salvezza dell'anima dei rei-peccatori e nel corso del XVI secolo tale esigenza fu inoltre corrispondente al crescente rilievo dello "splendore del supplizio" (11) , peculiarità di un sistema punitivo fondato sull'idea di esemplarità, e dell'apparato spettacolare con cui quei supplizi divenivano esecuzioni capitali.
L'azione espletata dalla Confraternita superava dunque i limiti dei sodalizi fino allora dediti al seppellimento dei morti e si legava ad una funzione fondamentale dello Stato, di cui seguì il percorso dall'organizzazione dei tribunali di antico regime fino alle condanne dei tribunali ottocenteschi, eccetto le interruzioni dei periodi rivoluzionari, la prima delle quali fu durante la Repubblica romana del 1798-99 (12). Nel secondo periodo francese (1810-1814) l'attività continuò, pur se fortemente condizionata dal nuovo regime (13). L'altra interruzione avvenne con la Repubblica romana del 1849.
1. "La sepoltura dei condannati, preceduta dalla pietosa ricomposizione dei loro corpi straziati dalla giustizia pontificia veniva poi incontro anche alla più pratica esigenza di provvedere alla sepoltura di coloro che costituivano oggetto di repulsione ed erano generalmente avvertiti, dalla sensibilità comune, come presenze minacciose per i vivi" (14).
La storiografia recente ha letto nella formazione di compagnie come quella di S. Giovanni decollato l'espressione dell'ancestrale rapporto con la "comunità" dei morti (15).
La condanna a morte come atto pubblico e di piazza e i corpi stessi dei condannati - messi dalla giustizia in lugubre mostra nei luoghi dei patiboli - toccavano archetipi di grande potenza, con l'implicito terrore per la reazione dei morti e la loro vendetta; le spoglie lasciate a lungo nel punto dell'esecuzione erano monito deterrente ma anche emblema del loro minaccioso ritorno. L'esecuzione violenta di persone non confessate, e quindi non pentite, manteneva aperto il conflitto con la giustizia e la società; tuttavia proprio una tale atavica paura poteva essere placata da un'istituzione legittimamente riconosciuta, il cui compito fosse quello di acquietare l'anima del morituro con il perdono e la conseguente, degna sepoltura dentro i confini della città.
Un altro aspetto messo recentemente in luce dalla storiografia è il nuovo concetto di "assistenza" praticato dalla Compagnia rispetto alla tradizionale carità delle confraternite pretridentine: l'indicazione di una via di perfezione come missione personale e come individuale esperienza spirituale. Non si trattava più di generale "corale e rumorosa esortazione alla morte cristiana" (16) , ma di un colloquio ad personam per la salvezza dell'anima. A tal fine era necessaria una specializzazione condotta da un gruppo ristretto. La "fiorentinizzazione" del papato (Leone X e Clemente VII) fu la condizione perché tale specializzazione fosse propria della comunità fiorentina; la spinta controriformatrice dei pontificati successivi, con l'affermata contiguità tra reato ed eresia e quindi tra pena e pentimento, fu poi l'ambiente ideale che consentì alla Confraternita di divenire "modello di grande successo" (17), che valorizzava ed esaltava la carità come opera salvifica non solo per il confortato, ma anche per il confortatore. "La capacità di legare il rapporto con Dio a quello col bene degli altri (facendo risultare il tutto in un processo di perfezionamento di se stessi) riguardava anche i morti. Quell'azione verso i defunti che Lutero escludeva cancellando le indulgenze era la vetta emergente del sistema della carità" (18).
La carità più alta, l'assistenza al morituro, aveva dunque un grande compenso ultraterreno anche per gli stessi confortatori, i quali nella confessione e nel pentimento del condannato trovavano il luogo di salvezza della propria anima.
"Beati misericordes quoniam ipsi misericordiam consequentur" fu sempre l'idea cardine del lavoro dei confratelli di S. Giovanni decollato, un concetto confermato nelle diverse versioni, progressivamente aggiornate, dello Statuto della Confraternita: " la maggior parte de'miseri a morte per giustizia condannati senza tal conforto disperati morrebbono, e chi è causa della salute di un'anima difficilmente potrà perdere la sua." (19) La tenacia e - spesso - l'impeto con cui i confratelli tentavano di arrivare alla confessione del condannato trovava in queste convinzioni il principale fondamento.
2. L'azione dei confortatori sul condannato era tesa certamente alla confessione, e con essa ad affermare l'idea della morte come passaggio ad una vita ultraterrena benefica e perfetta, raggiungibile solo attraverso il riconoscimento dei propri peccati ed il pentimento. Un altro fondamentale obiettivo era però l'approvazione e il riconoscimento della condanna ricevuta. Il manuale di T. Crispoldi, stampato nel 1572, e quello di P. Serni, del 1675, erano il viatico dottrinale su cui i confortatori fondavano i loro argomenti e le scelte di comportamento verso i condannati (20). Anche a confessione avvenuta era possibile continuare il discorso con il morituro sul significato della morte, con l'aiuto della lettura di testi che - come quello del Granada ( 21) - costituivano una notevole pressione psicologica.
L'idea centrale di Serni, e quindi delle argomentazioni dei confratelli, era la sacralizzazione della pena, cioè la presentazione della condanna a morte come una decisione divina prima che umana, ponendosi la legittimità del sovrano nella volontà di Dio. L'esecuzione della sentenza era dunque un modo per liberare il morituro dall'inferno che avrebbe patito per il peccato commesso, né l'eventuale pretesa d'innocenza avrebbe scalfito tale principio, essendo a quel punto la condanna il segno dell'ineluttabile volontà divina finalizzata all'espiazione di altri peccati; era cioè necessario "disporre il condannato a riconoscere d'aver meritato la morte" e la sua eventuale innocenza era comunque superata dalla volontà di Dio, che lo aveva fatto confessare durante il processo. "Se non ha veramente fatto il delitto, per il quale è condannato, l'haverà necessariamente confessato, o le leggi lo dichiarano confessato e però non ha ragione di chiamarsi a torto condannato, essendo obbligato a sapere che per tal delitto vi è la pena della vita e le leggi humane non son fatte senza l'assistenza di Dio" (22). Nel caso di pretesa di totale innocenza dai peccati, reclamata dal condannato, l'esecuzione era comunque presentata come disegno della provvidenza: "all'incontro de' confortatori ristette il paziente senza parlare e senza muoversi, onde bisognò che i famigli lo spingessero in cappella, dove giunto non fece atto nissuno di cristiano, ma con arrogante voce domandò che cosa aveva fatto per cui dovesse morire, e ripetendolo più volte uno de nostri fratelli gli domandò che cosa aveva fatto Gesù Cristo che pure era morto in croce" (23). Nel testo di Crispoldi la morte del condannato rappresenta una via della salvezza, anzi la via che meglio di altre - proprio perché preparata con i confortatori - alla salvezza può condurre più facilmente.
La conforteria poteva comportare l'uso di mezzi energici per giungere alla confessione, che i confratelli ritenevano assolutamente necessari a salvare l'anima del condannato; talvolta in tale difficile operazione erano coadiuvati da religiosi o membri delle altre confraternite romane coinvolte nel rito della morte per condanna, come quella degli Agonizzanti e quella delle Anime del Purgatorio (24). L'azione avveniva generalmente nella cappella del carcere, quindi prevalentemente a Tor di Nona fino alla metà del '600, e dal 1657 nelle Carceri Nuove di via Giulia, non molto distante dalla chiesa di S. Orsola dove, la sera prima dell'esecuzione, gli stessi confratelli si preparavano alla conforteria e designavano i confortatori. Questi si recavano in carcere, dove restituivano al capitano il mandato del tribunale; vestiti del sacco nero si avvicinavano al condannato e cercavano di persuaderlo alla confessione. I comportamenti energici in caso di pertinacia consistevano nella minaccia dell'inferno, nell'avvicinare del fuoco alla pelle per simulare la pena eterna, nel mostrare strumenti di supplizio come la corda della forca e - in casi di eccezionale persistenza - non era impossibile la violenza fisica. Generalmente il condannato accoglieva gli argomenti dei confratelli, disponendosi alla confessione; si giungeva quindi al momento del testamento che i confratelli aiutavano ad estendere: quello era spesso anche il tempo del perdono verso i vivi e delle raccomandazioni ai parenti.
Del lascito dei condannati poteva beneficiare anche la Confraternita stessa; già nella bolla istitutiva Innocenzo VIII aveva concesso tale facoltà sine preiudicio fisci, stabilita per un valore massimo di sei ducati d'oro nel 1534 da Clemente VII. Il limite fu spostato a dieci ducati da Paolo III nel 1537 e a venticinque da Giulio III nel 1551. (25)
Dopo la redazione del testamento si celebrava la messa e il condannato veniva comunicato; il maestro di giustizia entrava con la corda al canto delle litanie dei confratelli, che avevano in mano le tavolette con le immagini sacre. All'alba iniziava il rito della processione dal carcere. I confratelli incappucciati stavano davanti alla prigione e nel frattempo generalmente la popolazione faceva altrettanto. Alcuni fratelli avevano in mano i ceri e le torce, altri le tavolette; incedevano fuori dal carcere con il condannato, il quale durante il percorso doveva sempre avere davanti le immagini sacre. Il condannato, con le mani legate dietro la schiena, poteva salire su un carro, in modo da essere visibile al popolo, oppure andava a piedi al centro del corteo, facendo di solito un percorso molto lungo. La confraternita si staccava dal condannato solo davanti al patibolo per poi ritirarsi consegnandolo al boia. "accompagnino i pazienti al luogo della giustizia cantando conforme l'uso nostro per la strada le litanie. Quivi arrivati ed entrati nella cappelletta od altro luogo a ciò destinato, non n'escano sotto qualsivoglia pretesto, molto meno sia chi ardisca d'andar dietro i pazienti fino al patibolo fuor che i due confortatori che l'averanno assistito, il provveditore e due sagrestani" (cap. XI). Il condannato tornava ai confratelli dopo l'esecuzione, quando il corpo veniva ricomposto - generalmente dopo essere rimasto in vista sul patibolo -, e cristianamente sepolto, quando non veniva consegnato alla Sapienza per gli studi di anatomia (26). Le spese per la cerimonia erano attribuite alla famiglia del condannato "e non disponendo i meschini delle cose loro, ne faccia far esito coll'impiegare il danaro ritratto in benefizio di quell'anima" (cap. VII). I penitenti erano seppelliti nella fossa comune della chiesa di S. Giovanni decollato, ma potevano essere seguite disposizioni diverse del condannato stesso (27) ; gli impenitenti non condannati al rogo erano abbandonati dalla Confraternita e sepolti fuori dalle mura della città, "in loco profano, quem Muro torto vulgo nominamus" (28). I casi di ostinazione e pertinacia inaudite non consentivano nemmeno il seppellimento al muro torto, perché ingiusto persino nei confronti dei renitenti lì sepolti: "Il corpo di questo perfido uomo, per quanto è stato detto non è stato ne pur voluto a muro torto, potendo essere che alcuno de sotterrati quivi si sia in punto di morte rivolto a Dio e salvato, dove quest'empio, e dannato certamente fu dal boia portato a seppellirsi fuori dalla Porta di Popolo sulla riva del Tevere" (29).
3. Alla Confraternita era possibile affiliarsi solo dietro approvazione preceduta dall'istruttoria dei maestri dei novizi; per l'ammissione si doveva tenere ampio conto della "fama" del candidato ed era inoltre necessario che questi non facesse parte di altre associazioni e confraternite. Quest'ultimo era un requisito molto importante e fu mantenuto sin dall'inizio, cosa che conferma il significato sacrale ed esclusivo che i confratelli davano al loro compito. La scelta - fatta già nel 1509 - di condizionare l'affiliazione anche al pagamento di una tassa non determinò mutamenti nella struttura sociale della confraternita, che rimase a carattere artigiano-popolare con presenza di artisti (30) , medici, uomini di legge e non vide mai il prevalere di banchieri e mercanti, come avveniva nell'altra compagnia nazionale fiorentina, quella della Pietà di S. Giovanni dei Fiorentini (31).
I conflitti tra i confratelli, documentati intorno al primo decennio del '500, dovettero comportare l'elaborazione di criteri più rigidi per l'ammissione e quindi l'elaborazione del nuovo Statuto; anche le disposizioni, successive alla conferma di Giulio II, sul numero e la qualità dei confratelli che dovevano accompagnare alla sepoltura non furono accolte senza polemiche e discussioni (32). Il pontificato di Leone X Medici fu inoltre motivo e occasione per dare nuova fisionomia al sodalizio. Nel 1513 fu discussa la possibilità di chiedere il privilegio di liberare un condannato l'anno, ma la maggioranza non ritenne ancora matura tale proposta. Il privilegio fu definitivamente accordato da Paolo III il 1 febbraio 1540 e regolato dal cap. XXV dello Statuto; da Leone X furono però concesse nuove indulgenze che arricchirono la Confraternita e "ordinò di più, che detti confratri non dovessero di lor volontà accettare, ne da altri potessero essere sforzati ad accettare in essa Compagnia persona alcuna che di natione Fiorentina non fusse" (33). Si veniva quindi precisando il volto nazionale della Confraternita, che i riti delle feste (la candelora, il venerdì santo, il santo patrono fiorentino) rendevano più netto e riconoscibile nella città. La compagnia trovò poi anche nell'istituzione del Consolato dei Fiorentini (1515) un motivo di consolidamento, perché a quell'istituzione era delegata la soluzione di una parte dei conflitti interni, che avrebbero perciò inciso meno sugli equilibri dell'associazione. Decisa nel 1514, la modifica dello Statuto fu attuata nel 1518: "per rimediare all'inconvenienti che nascere potessino e a quelli che nati fussino parve alli nostri padri governatore e consiglieri doppoi moltissimi ragionamenti riassumere rinnovare [eliminare] e correggere". Il compito fu affidato "a 24 omini de più antiqui de nostra compagnia adunati in Santo Salvatore del Lauro parve alli 27 del mese prossimo preterito" (34) ; eletti otto confratelli per l'elaborazione finale, lo Statuto fu approvato il 5 agosto 1518 (35). Le incertezze si concentravano ancora sui criteri per l'ammissione, e due anni dopo fu corretto il proemio (36).
È del 1581 la prima riforma statutaria della Confraternita, approvata il 19 giugno, "nondimeno perché la variazione de'tempi aveva obbligata la Compagnia a fare diversi partiti e decreti con restringere ampliare e dichiarare i suddetti capitoli, acciocché ella in avvenire con ordini chiari e certi e fra loro non difformi si governasse."
La successiva modifica fu decisa il 6 dicembre 1711, con Clemente XI, "per togliere ogni ambiguità e contradizione e render sempre più adattate al florido suo stato in cui…presentemente si trova, le leggi colle quali ella dovesse governarsi in avvenire"; il nuovo Statuto fu approvato il 1 maggio 1712 (37).
La versione settecentesca è il riferimento fondamentale, non potendosi compiere confronti con gli statuti precedenti (38), ma la comparazione con i Libri del Provveditore nell'archivio consente comunque un'attendibile verifica della situazione organizzativa nei secoli XVI-XVII.
La struttura dell'associazione era formata da un governatore, due consiglieri, un provveditore, un camerlengo, un segretario, otto confortatori, tre maestri dei novizi, quattro infermieri, due operai, un maestro di cerimonie, otto coristi, due sagrestani, un archivista, un cappellano, un procuratore, un computista, un esattore ed un servo.
Il cap. II dello Statuto prevedeva un'elezione ogni nove anni per la costituzione della "borsa" degli ufficiali superiori (governatore, consiglieri, camerlengo, provveditore) e ogni tre anni per gli inferiori. Le varie cariche erano poi rinnovate ogni quattro mesi: a gennaio, a maggio e a settembre e quella del Governatore ogni anno (cap. III).
I Libri e i Giornali precedenti il 1711 offrono descrizioni particolareggiate delle rotazioni quadrimestrali, un momento rituale del quale era parte anche un resoconto dell'attività svolta e l'eventuale "correzione", cioè la punizione per errori commessi dagli ufficiali durante il loro mandato: "furon dal P. Governatore mandati all'altare tutti gli offiziali vecchi ordinatamente e data la loro lode o correzione giusta che meritavano, e dopo tutti il fattore. Dopo fu fatta la solita distribuzione del pepe e, quella terminata, andati il nuovo Governatore con i consiglieri nel luogo solito parato vicino all'altare, il Governatore vecchio si licenziò con ben acconcio discorso, e partendosi dal desco andò con i suoi consiglieri a consegnare al nuovo il libro e la borsa col sigillo e chiavi, si come fecero i consiglieri vecchi alli nuovi della lor chiave, dandosi vicendevolmente la pace." (39)
Anche la procedura per lo "squittino", lo scrutinio generale previsto dal cap. II dello Statuto, era già praticata prima del 1711; nel maggio del 1665, infatti, "dovendosi poi in questo giorno in conformità de'nostri capitoli lo scrutinio, furono nominati dal desco dicidotto persone, cioè otto dal P. Governatore, sei dal primo consigliere e quattro dal secondo consigliere per andar tutti a partito ad effetto di rimanere nove vinti per più voti". Dalla rosa dei diciotto venivano - come da Statuto - elette nove persone. "Si diede subito principio allo scrutinio nel mezzo dell'Oratorio stando il P. Governatore e i consiglieri a sedere in sedie di vacchetta a capo a una tavola coperta di panno verde e gli altri sedendo nelle manganelle inferiori; et invocato prima lo Spirito Santo io proveditore cominciai a raccogliere i voti in cartocci di carta, ne' quali si metteva di mano in mano la polizza di quelli che secondo l'ordine dell'alfabeto erano nominati dal Governatore" (40). I nove eletti e i sei ufficiali principali davano quindi luogo all'elezione.
I registri sette-ottocenteschi non riportano più l'attività interna della Confraternita, limitandosi alla descrizione delle "giustizie", cioè delle esecuzioni; tramite i Libri è quindi impossibile ricostruire il rispetto della procedura statutaria e i rinnovi periodici delle cariche, ma la tendenza al consolidamento degli incarichi e la riduzione delle rotazioni dovette di fatto caratterizzare la struttura della Confraternita nel XVIII e XIX secolo. (41) La durata annuale della carica del Governatore non sembra infatti confermata dai registri precedenti il 1712, dai quali appare chiaro invece un rinnovo quadrimestrale come per le altre cariche (42). Il passaggio alla carica annuale potrebbe dunque essere una modifica tesa a dare maggiore stabilità alla compagnia.
Il Governatore era infatti la prima autorità della Confraternita: "Spetti a lui il proporre tutti i negozi de' quali occorrerà trattarsi né sia chi proponga cosa alcuna senza sua espressa commissione, né alcuno parli in essa o si parta se non con sua licenza" (cap. V). Aveva i due consiglieri come suoi sostituti e assistenti, e questi potevano determinare le esclusioni dei confratelli, perché le decisioni dovevano essere prese con il loro consenso, totale o parziale (cap. VI). Il Provveditore aveva invece il compito di tenere l'inventario delle proprietà, controllare i salariati, vigilare sul rispetto dei regolamenti, organizzare l'attività dei confortatori "e sia accurato di registrare ne' suoi libri tutto quello che vi si risolve e generalmente noti in esso quanto si fa nella compagnia" (cap. VII). Al Camerlengo era sottoposto il controllo delle entrate e delle uscite e la compilazione dei registri dei depositi e dei mandati di pagamento (cap. VIII); doveva inoltre controllare le tasse, i crediti e i debiti coadiuvato dal segretario e dal computista.
Il ruolo dell'archivista è, nello Statuto, considerato di grande importanza "mentre preme troppo che il nostro archivio sia affidato a persona diligente e fedele" (cap. XVIII).
La quota che i novizi ammessi nella compagnia dovevano pagare era di 28 giuli (circa tre scudi), in aggiunta al pagamento delle spese per la festa del patrono. Non potevano essere più di nove per ogni Governatore e dovevano essere fiorentini, o almeno figli di un appartenente al sodalizio: in tal caso il privilegio si interrompeva e non poteva essere trasmesso al figlio. L'ammissione era decisa dopo opportune informazioni e con doppia votazione: doveva prima passare al vaglio degli ufficiali ed essere approvata con "i due terzi delle fave nere" e poi proposta dal Governatore in "corpo di compagnia" (composto da venti confratelli) e lì essere nuovamente approvata con il consenso dei due terzi. Nel 1765 queste norme furono modificate e rese più flessibili a causa della crisi di richieste: abolito l'obbligo di pagare la festa del patrono, la discendenza fiorentina fu limitata al terzo grado e l'elezione fu semplificata, passando soltanto per gli ufficiali ed evitando il vaglio del "corpo di compagnia" (cap. XXXI).
La Confraternita di S. Giovanni decollato non era chiusa alle donne, data la convinzione dei fratelli di "quanto efficaci sieno appresso Dio le orazioni del devoto femminil sesso" (cap. XXVIII), ma la loro funzione era esterna all'attività istituzionale. Il carattere sovranazionale della partecipazione delle donne era accettato, poiché il loro ruolo si traduceva fondamentalmente nella sola preghiera.
Al centro del lavoro della Confraternita era naturalmente l'azione dei confortatori; nello Statuto il loro numero non è definito in modo inequivocabile, ma al conforto del condannato dovevano essere dedicati almeno quattro fratelli degli otto che si ritengono deputati all'ufficio; potevano tuttavia esserne aggiunti altri, presi naturalmente dalla "borsa" dei confortatori.