La confraternita delle vergini miserabili di S. Caterina della Rosa ai Funari è una delle infinite opere di assistenza e beneficenza fondate e promosse da S. Ignazio di Loyola.
Quando verso la fine di novembre dell'anno 1537 egli venne e si stabilì a Roma (1), accompagnato da due suoi compagni, il Fabro ed il Lainez (2), fra le principali piaghe della città erano la prostituzione alla quale si davano numerose cortigiane e la miseria, le cui funeste conseguenze arrecavano danno incalcolabile alla fanciullezza, che spinta dalla necessità e senza alcuna guida e istruzione, si dedicava al vizio.
La squallida sorte di questi ragazzi, in particolare, aveva già formato oggetto di attenzione da paret dell'illustre umanista Ludovico Vives che nel "De subventione pauperum" (3) tratta delle cure, della educazione e della istruzione che devono essere date alla tenera prole dei poveri, abbandonata a se stessa.
Alla vista di tale pietoso spettacolo e per sottrarre tante fanciulle alla miseria dei loro genitori e, peggio ancora, al pericolo cui erano esposte per la disonestà delle madri, S. Ignazio diede l'avvio, a scopo preservativo, ad una nuova opera: il conservatorio delle vergini miserabili di S. Caterina della Rosa ai Funari (4).
Pietro Ribadeneira (5), uno dei primi compagni del santo, parlando del monastero di S. Caterina dei Funari, scrive che in questa, come nelle altre sue opere, "egli teneva questo ordine: comunicava la sua decisione ad alcuni uomini gravi, prudenti, amici di ogni cosa buona e particolarmente inclini alle opere di carità. Ventilate con costoro e appianate le difficoltà dell'opera a cui volevano dare felice inizio, andavano a parlarne con alcuni uomini di alto rango, ricchi e devoti, affinchè con la loro autorità e le loro elemosine, le dessero l'avvio e la provvedessero di mezzi. E la prima cosa era scegliere tra i cardinali della Santa Chiesa quello che paresse loro più adatto per essere protettore dell'opera progettata. Poi creavano la confraternita dell'opera stessa, ne scrivevano lo statuto, ne stabilivano le leggi e predisponevano tutto quello di cui aveva bisogno per governarsi e per mantenersi in piedi".
Tra coloro che fondarono e organizzarono la confraternita delle vergini miserabili di S. Caterina della Rosa, figurano insieme a S. Ignazio e S. Filippo Neri, il Cardinale Carafa (il futuro Paolo IV), i nobili e ricchi spagnoli Ludovico Torres, Filippo Ruiz, Alfonso Diaz nonchè il Cardinale Federico Donato Cesi che ne fu il primo Protettore e il maggiore benefattore ed ebbe il grande merito della ricostruzione della chiesa a fundamentis.
Il Fannucci, il Piazza, l'Armellini ed altri scrittori fanno risalire la fondazione dell'Opera al 1536 (6), anno in cui Paolo III avrebbe concesso la chies adi S. Caterina dei Funari a S. Ignazio, ma nessun documento ha potuto finora stabilire con esattezza l'anno in cui ebbe inizio la pia istituzione e la data precisa del suo riconoscimento da parte di Paolo III.
E' certo però ch eciò non potette avvenire nel 1536 in quanto, come è stato avanti accennato, S. Ignazio di Loyola arrivò a Roma per restarvi definitivamente solo verso la fine di novembre 1537.
Mi sembra qui opportuno riportare alcune notizie attinte dal Tacchi Venturi che potrebbero essere in un certo senso utili ai nostri fini:
1) Paolo III fu assente da Roma dal 23 marzo fino al giugno del 1538 perchè a Nizza per una missione di pace tra Carlo V e Francesco I (7) ed il colloquio tra il Pontefice ed il santo fu possibile solo nel novembre dello stesso anno, a Frascati, dove il Loyola si recò per chiedere ampia assoluzione dalle colpe attribuitegli da alcuni nemici.
2) A prposito della terza sede romana dei compagni ignaziani presso la casa di Antonio Frangipani, "vicino alla torre del Melangolo", per dare una più esatta ubicazione di quest'ultima, il Tacchi Venturi scrive: "circa la posizione della torre del Melangolo sono preziosi i dati provenienti dalla stima, che il 23 luglio 1539 fecero i Maestri delle Vie, intitolata: "Tasa delle case che hanno a paghare il danno che patiscono le case che vanno butate in terra per aprire la strada innanzi al monisterio di S. Catelina delli Funari che responde alla strada delle Botteghe Oscure alla Via della Tore delli Melangoli" (ASR Presidenza delle strade, Taxae Viarum, vol. 445, 1514-1584). (8)
Ma anche questi elementi non fanno luce sull'argomento che interessa la nostra opera in quanto, da altre citazioni incontrate, sembra che anche anticamente esistesse un monastero nel luogo dove poi sorse quello in esame. (9)
Per ultimo desiderio riferisce brevemente ed a solo titolo di curiosità quanto ho trovato scritto a carta 3 del volume intitolato "Dare et avere dell'oratorio delle monache di S. Caterina della Rosa. A. 1640", attualmente nella serie XII entrate e uscite col numero 556:
"La chiesa parrocchiale di S. Maria della Rosa, così denominata dalla rosa che in mano teneva il Bambino Gesù nel seno giacente della sua Gran Genitrice Maria sempre Vergine, fu demolita per fabbricarvi questo monastero e chiesa di S. Caterina della Rosa, così denominata dalla predetta chiesa parrocchiale benchè altri la soprannomini delli Funari......altri la chiamarono S. Caterina a Torre dei Merangoli per la torre che era nel palazzo, oggi dei signori Patritij, demolita qualche anno fa e da quel palazzo in là, non essendo quella parte della città molto incasata, vi erano dei giardini con merangoli, da che facilmente può credersi abbia potuto derivare questa denominazione.
La casa fu cominciata ad essere abitata dalle povere zitelle e alcune donne, per loro governo, nell'anno 1542.
Finchè riedificata la suddetta chiesa e monastero a fundamentis dall'E.mo card. Federico de Cesis e quei Signori di quel tempo che governavano, parendogli non bene che le zitelle fossero ammaestrate da Donne secolari, pensarono di fare scelta tra dette zitelle, di quelle che avevano spirito di religione, e ad esse dare la cura delle altre, come cominciarono a fare sotto la Regola di Santo Agostino.
Camminava questa santa opera sotto lo stendardo del Crocifisso Gesù e protezione di S. Caterina Vergine e martire ogni giorno più alla perfezione, massimamente per la cooperazione di S. Filippo Neri che per l'ordinario ogni settimana vi entrava e istruiva nell'orazione e santi esercizi dell'Oratorio come testificano alcune monache e vecchie zitelle ancora viventi in esso, et in particolare suor Elena, suor Apollonia.......et altri che dicono di aver veduto et udito discorrere detto S. Filippo, che, dopo finiti gli esercizi spirituali, faceva poi cantare diverse laudi......" (il racconto seguita con un miracolo che S. Filippo avrebbe fatto toccando la testa di suor Elena e con la descrizione delle cappelle e pitture esistenti nella chiesa).
Il Padre gesuita Orlandino Nicolao, nelle "Historiae societatis Jesu" pubblicato a Roma nel 1614, alcuni anni dopo la sua morte, fa risalire la fondazione del monastero al 1543 (10). Questa data sembra possa essere la più attendibile di tutte non solo per quanto è stato finora considerato, ma soprattutto per l'autorità dello scrittore e l'epoca in cui è vissuto.
Anche il Morichini (11) considera il 1543 l'anno di nascita della pia istituzione, ma il primo documento ufficiale, riguardante la confraternita delle vergini miserabili di S. Caterina dei Funari, sono le lettere apostoliche del 2 novembre 1558, con cui Paolo IV approva le disposizioni orali di Paolo III, e la bolla con la quale pio IV conferma la erezione della confraternita, del conservatorio e del monastero. (Assegnazione della chiesa e casa di S. Caterina dei Funari all a confraternita: estinzione del titolo parrocchiale da trasportare a S. Lucia della Tinta alle Botteghe Oscure; facoltà di scegliersi un Protettore e di erigere un monastero con 12 monache dell'Ordine degli Eremiti di S. Agostino per il servizio delle Vergini; ecc.).
Scopi dell'opera.
L'origine del conservatorio va attribuita, come abbiamo visto, alla pia intenzione di S. Ignazio e di altri devoti uomini, molti dei quali erano nobili e ricchi spagnoli, di mettere al sicuro e salvare dal pericolo, cui erano esposte, le figlie di cortigiane e di donne di mal costume che, per il cattivo esempio domestico o per l'estrema povertà, potevano cadere, prima o poi, vittime della seduzione.
Esse dovevano essere di gradevole aspetto, residenti a Roma da almeno due anni e di età dai nove ai dodici anni.
Durante i sette anni che rimanevano ospiti del monastero, la confraternita, oltre che ai loro bisogni materiali, degli alimenti, del vestire ed altro, pensava anche e soprattutto a quelli spirituali e morali.
Erano poste sotto la sorveglianza e direzione di dodici suore agostiniane, anch'esse del tutto soggette alla confraternita e alle costituzioni (12) di questa, che poteva aumentarle o diminuirle.
Mediante la diligente e vigile opera delle suddette monache, che inizialmente furono scelte tra le stesse ragazze aventi vocazione religiosa, venivano educate ed istruite a tutte le virtù cristiane, imparavano lavori di cucito, di ricamo ed ogni arte domestica che potesse formare di ciascuna di esse una donna onesta e timorata di Dio ed essere avviata, a seconda delle attitudini, alla vita matrimoniale o a quella monastica.
Veniva usata la massima cura nell'esaminare le richieste di ammissione delle ragazze e, prima di accettarle, si predisponevano accurate informazioni e visite a domicilio, eseguite da alcuni confratelli, nominati di volta in volta in congregazioni e scelti tra i più pii e di avanzata età.
Ad altri invece era affidato l'incarico di accertarsi della buona indole, moralità e condizione economica di quei giovani che chiedevano in moglie le fanciulle, chiamate "figlie del luogo" alle quali, all'atto del matrimonio, era concessa una dote di 50 scudi e una veste bianca, salvo aumento ed elargizioni in casi particolari, e altri 25 scudi si concedevano alla nascita del primo figlio.
Le "figlie del luogo" venivano visitate ed assistite anche dopo aver contratto matrimonio e per quelle che malauguratamente restavano vedove o, per gravi motivi, dovevano separarsi dai loro sposi, fu istituita, accanto al monastero, la casa delle vedove che era soggetta alle stesse regole delle zitelle.
Spesso le ragazze andavano a servizio in case di gentildonne che s'impegnavano di mantenerle e vestirle per sei anni e di dare loro 150 scudi di dote quando si maritavano.
La Pia opera, sorta poveramente, col solo ausilio degli altri confratelli e del cardinale Cesi, per non parlare dei privilegi e delle grazie accordate da romani pontefici, prosperava e cresceva sempre di più e così grande era la considerazione, la popolarità che godeva e tanto veniva apprezzata la benefica organizzazione, che arrivò ad ospitare fino a 160 ragazze. E poichè non lieve era la difficoltà di nutrire tante zitelle che di continuo facevano domanda di entrare, la congregazione, nella seduta del 20 ottobre 1577, decretò che il numero di esse fosse limitato a cento o centocinquanta.
Affluivano all'opera elemosine da ogni parte e cospicui lasciti di numerosi benefattori tra i quali si annoverano non solo protettori o membri del sodalizio, come il cardinale Cesi, mons. Cosmo Giustini, Giulio Folchi, card. Altieri ecc., ma molti altri privati cittadini (Isabella de Luna (13), Marcantonio Petra ed altri) ch eammiravano ed apprezzavano l'attività ed i frutti della salutare istituzione.
Le zitelle uscivano dal monastero solamente in tre circostanze: per maritarsi, monacarsi e nella festa di S. Caterina del 25 novembre. In questa ricorrenza la chiesa era adornata da appositi apparati, venivano fatti grandi festeggiamenti e celebrate solenni funzioni religiose con l'intervento del Protettore, di altri cardinali, dei confratelli al completo, delle monache e delle zitelle che in tale occasione potevano essere viste dalla popolazione.
In solenne processione si recavano poi alla chiesa dei SS. XII Apostoli, vestite di bianco le più grandi, da angioletti le più piccole. Ad esse era fatto assoluto divieto di parlare, accettare regali o fiori durante il percorso e si può dire che dopo la loro apparizione in pubblico, maggiori erano le richieste di matrimonio.
Col passare del tempo però l'opera cominciò a perdere la sua primitiva fisionomia e a tralasciare gli scopi che si erano prefissi i primi fondatori e che costitutivano l'aspetto più lodevole e importante della benefica istituzione.
Fu creata una scuola a pagamento per fanciulle di onorate famiglie, col divieto di pernottarvi, e cominciarono ad essere accettate le orfane e le donzelle di civil condizione che pagavano una pensione di cinque scudi mensili.
Lo stesso cardinale di S. Onofrio, Antonio Barberini, che fu Protettore dal 1632 al 1646, lasciò al conservatorio una rendita perchè fossero mantenute due zitelle povere, nubili e pericolanti.
Nel corso degli anni si ebbe un mutamento anche nella struttura della confraternita che da sodalizio, formato preminentemente di laici, fu poscia costituito da prelati, deputati all'amministrazione ed al controllo del monastero.
Grave danno riportò il conservatorio all'epoca dell'invasione francese del 1798 ed una lettera del MInistro dell'Interno può far dedurre quale fosse il clima in cui erano costrette a vivere le comunità religiose e quali conseguenze funeste potessero derivare alla disciplina e al buon andamento del pio luogo.
In tale lettera, diretta alla Madre Priora, il MInistro la rimproverava aspramente e la esortava ad inculcare sentimenti patriottici nelle educande dando, nel contempo, ordine di farle uscire a passeggio anche tutti i giorni, se lo volessero.
Nel 1809, infine, il conservatorio subì la sorte di tutti i conservatori di Roma che furono riuniti ed assoggettati ad una Commissione amministratrice.
Il governo francese requisì gli argenti suerflui della chiesa, vendette all'asta alcuni beni del conservatorio e l'obbligò inoltre a pagare un contributo di ventimila piastre (mille scudi).
Ripristinato il governo pontificio nel 1814, Pio VII, nel febbraio dell'anno successivo (1815), sciolse la predetta Commissione e restituì ciascun conservatorio all'antico Protettore con l'autonomia, il sistema e le norme esistenti anteriormente all'anno 1809.
Per eliminare tutti gli abusi e richiamare i conservatori allo spirito della loro primitiva istituzione, Leone XII, con suo moto proprio del 14 novembre 1826, decretò che i conservatori di Roma fossero regolati, diretti ed amministrati da una Deputazione Permanente composta di un Cardinale, che ne era il Presidente, di quattro assessori ed un segretario.
Successivamente Pio VIII, con sue lettere apostoliche del 28 agosto 1829, decretò che ai singoli conservatori fossero restituiti tutti i loro beni e che ciascuno, secondo le disposizioni dei fondatori, tornassero a fare come prima e ad avere una loro amministrazione lasciando anche l'assegno annuo stabilito dal suo predecessore.
Infine, in virtù della legge 3 agosto 1862, estesa alla Provincia di Roma con decreto 1° dicembre 1870, il Consiglio Comunale, in data 28 settembre 1872, si riunì in adunanza straordinaria per avocare a se' il conservatorio.
L'economo di allora, Pietro Crostarosa, nella sua risposta alle richieste e osservazioni del Consiglio Comunale, fece un rapporto sommario sulla nascita, sugli scopi e sulla situazione dell'istituzione, inviò una copia della Bolla di erezione di Pio IV aggiungendo che il patrimonio esistente era di proprietà del conservatorio e che il monastero fu creato ed esisteva al solo fine di provvedere alla educazione delle fanciulle.
Nonostante ciò, la Giunta liquidatrice dell'Asse Ecclesiastico, con verbale del 6 luglio 1875, redatto dal sig. Eugenio Falletti, in esecuzione della legge 19 giugno 1873 n. 1402 serie 2^, prese possesso dei beni ritenuti di spettanza del monastero.
Sorta questione sulla legalità di siffatta presa di possesso in quanto l'Istituto dimostrò che tali beni appartengono al conservatorio e non al monastero, si convenne che la presa di possesso dovesse considerarsi soltanto nominale e che l'amministrazione dei beni rimanesse ai deputati del conservatorio.
In seguito, dall'esame dei documenti prodotti, fu posto in chiaro che pur sussistendo una comunità religiosa di monache agostiniane nel locale dell'Istituto di S. Caterina della Rosa ai Funari, i beni appartengono all'istituto omonimo, la cui amministrazione, in forza di R. Decreto 20 marzo 1876, è affidata a tre membri da eleggersi dal Consiglio comunale di Roma, i quali presentemente sono gli onorevoli sig. comm. Gaspare Finali, senatore del Regno, il cav. Augusto Armellini e l'avvocato cav. Pietro Cavi.
Tra i predetti e il rag. Cleto cav. Magotti, segretario capo della Giunta liquidatrice, e con l'intervento delle dodici religiose agostiniane dimoranti nel conservatorio, si convenne di dichiarare nullo e di nessun effetto il verbale di presa di possesso dei beni del monastero redatto dal delegato Eugenio Falletti il 6 luglio 1875 e i beni descritti nel verbale stesso furono riconsegnati all'Istituto (14).
Al primo presidente della Commissione, comm. gaspare Finali, seguì il cav. Augusto Armellini e il 2 novembre 1897 fu nominato l'avv. Filippo Pacelli, già membro della commissione stessa dal 6 giugno 1888.
EREDITA'
Il conservatorio di S. Caterina della Rosa ai Funari, che alla sua costituzione si reggeva e governava con pubbliche elemosine e con i contributi personali dei confratelli, per la maggior parte appartenenti a illustri famiglie romane e spagnole, cominciò molto presto ad avere lasciti da persone di tutti i ceti sociali che apprezzavano e seguivano con favore l'opera altamente sociale svolta a favore della gioventù.
I componenti la congregazione, in particolare, si adoperavano in ogni modo affinchè i fini perseguiti venissero raggiunti e, conoscendo più degli altri i bisogni dell'Istituto che crescevano con il crescere dell'opera, non di rado lasciavano i loro beni in eredità al conservatorio.
Così attraverso i tempi si costituì un solido patrimonio che consentì alla comunità di godere di una certa tranquillità per l'attuazione dei fini voluti dai fondatori.
Tra le eredità degne di rilievo citiamo in ordine cronologico l'eredità Folchi, Canuti, Giustini e Altieri. Va subito detto che quella Canuti è impropriamente annoverata tra le eredità per i motivi esposti più avanti ma non costituendo una serie a sé è sembrato più opportuno farne qui una breve illustrazione.
EREDITA' DI GIULIO FOLCHI
Giulio Folchi è una delle principali e più complesse figure che s'incontrano nell'esaminare i documenti dell'archivio di S. Caterina dei Funari, non tanto per il voluminoso ed interessante carteggio che costituiva il suo archivio privato e ch edopo la sua morte fu versato, insieme a quello riguardante l'eredità, all'archivio della confraternita.
Dall'esame di detto materiale privato si rileva che egli ebbe stretti rapporti con varie personalità dell'epoca e curò per molti anni le amministrazioni e gli interessi del cardinale Guido Ascanio Sforza di S. Fiora, del card. Alessandro Farnese (nipote di Paolo III) e del duca Paolo Giordano Orsini, dai quali ottenne innumerevoli privilegi e donazioni.
Tra tali documenti (1470-1591) si trovano disposizioni testamentarie, carte contabili e giudiziarie, memorie e donazioni riguardanti le suddette persone e loro famiglie con alcuni autografi degli stessi cardinali Sforza e Farnese e di Paolo Giordano Orsini.
Non poca cosa doveva essere il suo prestigio in quell'epoca se si considera che, oltre ad essere confrate di S. Caterina dei Funari, fu ammesso a far parte della Compagnia di Gesù, delle congregazioni Cassinense e dei Barnabiti, e mediante il matrimonio delle figlie, cui dava doti rilevanti, s'imparentò con le più autorevoli e cospicue famiglie di Ancona, Roma e Bologna, sua città di origine.
A giustificazione del suo ingente patrimonio aggiungasi che dopo aver comprato da Paolo Giordano Orsini la tenuta del Bosco di Baccano, prese in affitto, insieme a Pietro Antonio Bandini e Giovanni Filippo Serlupi, lo stato di Cerveteri e di Bracciano, appartenenti agli Orsini, sublocando tali possedimenti e ricavandone le rendite.
Questo per sommi capi, ma per una più ampia conoscenza del suddetto archivio privatosi consultino:
- le buste 69, 70, 71 ed il primo fascicolo della busta 72 delle posizioni;
- le buste 48, 50 ed il primo fascicolo della busta 63 dei tomi;
- i primi dieci volumi dell'eredità Folchi.
Il 26 marzo 1591, essendosi ammalato, fece testamento, rogato dal notaio Prospero Campana. Morto poco dopo fu seppellito, secondo i suoi desideri, nella chiesa del Gesù, nella cappella appositamente costruitasi.
Lasciò metà delle sostanze, col divieto assoluto di vendita o alienazione, a tre luoghi pii: il monastero di S. Caterina, delle Convertite e dei Catecumeni, che a turno avrebbero dovuto tenere l'amministrazione dei beni per un quinquennio ciascuno.
EREDITA' DI MONS. ANDREA CANUTI, Vescovo di S. Elpidio
Mons. Andrea Canuti, con testamento e codicillo del 12 e 20 settembre 1610, tra le ultime volontà, dettò quella di essere seppellito nella sua cappella in S. Caterina dei Funari, dotandola di un terreno sito in vocabolo Bagnara e di altri fondi nel Comune di S. Elpidio a Mare.
I tre cappellani officianti dovevano essere nominati dalla comunità di S. Elpidio tra i suoi parenti e discendenti. Alle monache e zitelle del monastero lasciò 25 scudi per una sola volta.
Nominò erede universale dei suoi averi don Nicolò Tolomei, con l'obbligo di impiegare tutti i beni nell'erezione in Roma di un collegio dove fossero educati ed istruiti sei scolari di S. Elpidio, abili ad imparare: i primi alunni vennero nominati dallo stesso mons. Canuti, mentre per l'avvenire dovevano essere scelti dalla comunità di S. Elpidio tra i parenti e discendenti del testatore e la permanenza nel collegio non poteva superare i sette anni.
Lasciò il collegio sotto la protezione del cardinale Veralli e successivamente del monastero di S. Caterina. L'erezione poteva essere effettuata solo quando i frutti dell'eredità ascendessero a 600 scudi l'anno e anche più. Il collegio ebbe la sua prima sede a Fermo e nel 1632 fu trasportato a Roma prendendo sede accanto al monastero.
Da quanto sopra appare chiaro che il monastero, eccettuati alcuni terreni lasciati in dote alle tre cappellanie Canuti nella chiesa di S. Caterina, non ebbe alcuna eredità bensì la protettoria sul collegio di cui doveva amministrare i beni.
E ciò fece fino a tutto il 1699 quando il collegio Canuti fu assorbito da quello Piceno.
D'altra parte, poichè la contabilità concernente l'amministrazione dei suddetti beni è compresa per circa un secolo tra quella propria del monastero e della chiesa, è sembrato doveroso e opportuno inserire in questa serie un sommario accenno sulla costituzione del collegio Canuti.
EREDITA' DI MONSIGNOR COSMO GIUSTINI
Il rev. mons. Cosmo Giustini, patrizio romano e membro della confraternita di S. Caterina dei Funari, fu assassinato nella sua abitazione l'11 dicembre 1603.
Lasciò tutto il patrimonio alla casa degli Orfani e al monastero di S. Caterina, i quali decisero di addivenire alla divisione dei beni in quanto dalla comunione di essi poteva sorgere discordia o anche abbandono e disinteresse degli stessi.
In virtù della suddetta concordata divisione, approvata da Urbano VIII con breve del 5 dicembre 1633, al monastero di S. Caterina toccò la tenuta del Casale di castel di Leva nell'Agro Romano.
Sul muro del suddetto castello, semi diroccato, sembra vi fosse dipinta l'immagine antichissima della Madonna del Divino Amore che nel 1740, asportando la parte di muro ove era la sacra effige, fu trasportata in processione alla vicina chiesa della Falcognana (15).
Nel 1743, con le offerte di denaro che arrivarono copiosamente da ogni parte, il monastero iniziò la costruzione della chiesa nella quale la miracolosa immagine fu solennemente riportata il 19 aprile 1745 "in virtù della causa in Rota vinta dal monastero contro il capitolo di S. Giovanni in Laterano, che indebitamente aveva trasportato in detta chiesa della Falcognana la Miracolosa Immagine" (16).
La devozione alla Madonna procurava anche allora un tale afflusso di popolo che spesso i deputati del conservatorio, nel giorno della festa, erano costretti a chiedere l'intervento della forza pubblica. Le rendite provenienti dalla chiesa consentirono col tempo l'ampliamento della stessa e la bonifica fondiaria di tutto il podere imposta dal governo (17).
EREDITA' DEL CARDINALE GIOVANNI BATTISTA ALTIERI
Il cardinale Giovanni Battista Altieri, vescovo di Palestrina, ebbe la Protettoria del monastero dal 1734 al 1740.
Nipote di Clemente X e del cardinale Paluzzo Altieri, camerlengo di Santa Chiesa, resse l'abbadia dei SS. Severo e Martirio di Orvieto fino al 1703, dopo di che andò vice legato a Urbino.
Nel 1724 fu elevato al cardinalato dal Pontefice Benedetto XIII.
Il 1° marzo 1740, durante il conclave per la sede apostolica vacante, seguita alla morte di Clemente XII, dettò il suo testamento erede universale il monastero e conservatorio di S. Caterina con questa motivazione: "e ciò faccio per aver sperimentato quanto sia utile questa opera pia nella quale è ben ragionevole che siano impiegate le mie sostanze provenienti principalmente da rendite ecclesiastiche.
Voglio peraltro che il prefato mio erede abbia l'obbligo e peso di far celebrare una messa quotidiana per l'anima mia come pure che per lo più si piglino giovine secondo è determinato nella prima istituzione del monastero".
Nel testamento quest'ultima frase è sottolineata probabilmente per porre in rilievo quanta importanza avesse l'originario benefico intendimento.
Morì in conclave il 12 marzo 1740 e fu seppellito nel sepolcro di famiglia nella chiesa della Minerva.
Come si rileva dal suo consistente archivio gli appartenevano: l'abbadia dei SS. Severo e Martirio di Orvieto e l'abbadia di S. Paolo di Val di Ponte in Perugia, con i relativi estesissimi possedimenti.
LA CHIESA DI SANTA CATERINA DELLA ROSA AI FUNARI
L'area su cui sorge la chiesa di S. Caterina della Rosa, volgarmente detta dei Funari, secondo autorevoli fonti dei secoli XVI, XVII, e XVIII (18), costituiva la parte centrale del famoso circo di Flaminio, le cui rovine e la forma oblunga dell'arena erano ancora visibili e riconoscibili fin verso la fine del XVI secolo.
Il circo Flaminio faceva parte del rione S. Angelo e fin dal medioevo i funari si servivano della sua grande arena per torcere e distendere le funi onde l'appellativo "dei Funari" rimasto al luogo e alla chiesa di S. Caterina, protettrice dei linaroli, canepari e funari. La santa, condannata al supplizio della ruota in Alessandria, ne scampò miracolosamente, ma la ruota è rimasta il simbolo del suo martirio e ricorda le ruote usate per torcere il lino, la canapa e le funi.
Anticamente la chiesa veniva denominata "S. Maria Dominae Rosae in Castro Aureo", in quanto le rovine del circo erano chiamate "castrum aureum".
Secondo alcuni (19) la domina Rosa sarebbe stata la pia donna fondatrice della chiesa e di un monastero, mentre altri affermano che già esisteva una piccola chiesa dedicata a S. Rosa di Viterbo (20).
Da un manoscritto dell'archivio della confraternita la denominazione di S. Maria della Rosa è attribuita alla rosa "che in mano teneva il Bambino Gesù, nel seno giacente della sua Gran Genitrice Maria" (21).
Secondo lo stesso manoscritto la chiesa si chiamava anche "S. Caterina a Torre de' Merangoli", dalla torre esistente nei pressi.
Dopo l'erezione, da parte di Paolo III, della confraternita e del monastero, che presero il nome dalla chiesa, il cardinale Federico Donato Cesi, fervente fautore dell'opera e uno dei primi benefattori, intraprese a riedificare, a fundamentis, la chiesa, che, iniziata nel 1560, fu condotta a termine nel 1564.
In quell'epoca, e cioè agli inizi della seconda metà del XVI secolo, anche l'architettura si evolve secondo alcuni canoni suggeriti dal Concilio di Trento e, in particolare per le facciate delle chiese, viene adottato il tipo a doppio ordine che già si era affermato in Roma ad opera del Sangallo, seguito poi da Giacomo della Porta e da Guidetto Guidetti in S. Caterina dei Funari. I contemporanei non fanno il nome dell'autore della chiesa, che venne quasi sempre attribuita a Giacomo della Porta fino a quando il Giovannoni non scoprì sotto l'epigrafe della facciata la firma "Guideto de Guideti, Architector" (22).
Scarse sono le notizie pervenuteci su questo artista al quale, oltre la chiesa di S. Caterina, sono attribuiti i palazzi della famiglia Cesi ad Acquasparta e Cantalupo in Sabina, ed alcuni lavori di fortificazione di Borgo, Trastevere e Castel Sant'Angelo.
In ogni modo all'epoca dovette godere di grande reputazione se la facoltosa Casata dei Cesi gli affidò l'esecuzione di tante importanti opere, tra cui sembra debba annoverarsi anche la cappella Cesi in S. Maria Maggiore (23).
La sua fama però è legata alla facciata della chiesa di S. Caterina dei Funari per la cui architettura rimandiamo a P. Parsi, A. Venturi., V. Golzio e G. Zanderi ecc. (24).
Il materiale documentario riguardante la chiesa e la sua costruzione, rinvenuto nell'archivio della confraternita, è scarsissimo.
Sappiamo che la consacrazione avvenne la domenica del 18 novembre 1565 e che Pio IV concese in quell'occasione numerose indulgenze. Nelle entrate e uscite risultano spesi per la fabbrica della chiesa 449 scudi (25) e successivamente altri 2073 scudi figurano in uscita (26) per lo stesso motivo ma, in entrambi i casi, il lettore viene rimandato ad un libro della fabbrica che non si è potuto reperire.
D'altra parte, nel 1773 il computista Giovanni Battista Zamboni, rispondendo al primicerio del monastero che chiedeva quali fossero le scritture contabili scrive, tra l'altro, che non esisteva alcuna scrittura contabile nella chiesa per il periodo 1561-1597 (27).
Qualche notizia, invece, si è reperita su alcuni artisti che lavorarono ad abbellire le cappelle e a questo proposito è interessante la citazione trovata nei decreti del 1594 (28) di Scipione Pulzone al quale il deputato della congregazione Giovanni Solano aveva commissionato il quadro dell'Assunta per la sua cappella in S. Caterina.
Il Pulzone, nonostante avesse ricevuto il compenso anticipato di 400 scudi, non finì la tela e poichè, dopo la sua morte, l'impegno di condurla a termine fu assunto dal figlio del pittore, il quadro venne portato in casa dell'arcivescovo di Urbino Giuseppe Ferreri (29).
Seguì una controversia tra il monastero e gli eredi del Pulzone e finalmente la tela fu restituita e posta sull'altare della cappella Solano.
Altro artista menzionato nella serie delle entrate e uscite è Federico Zuccari al quale, per gli affreschi eseguiti nella cappella Ruiz e in quella dell'altare maggiore, furono corrisposti 260 scudi, pagati in quattro volte (30).
Nel citato manoscritto del 1640 (31) trovasi infine la descrizione delle sei cappelle della chiesa che riporto nel testo integrale:
"1) la prima, cioè l'altare maggiore, è del medesimo sig. card. federico Cesi fatta a olio, pittura di Marco da Siena, altre di Livio da Forlì, l'Historie martirali ad esso altare a fresco sono pitture delli sigg. Federico e Taddeo Zuccari; detta cappella è dotata di luoghi quaranta del Monte della Farina.....
2) la seconda, cioè l'Assunta, è di Scipione Gaetano (32), detta cappella è stata fatta dal sig. Solano, deputato della nostra congregazione il quale essendo morto prima di dotarla è rimasta così derelitta.
3) la terza, cioè la S.ma Pietà delli sigg. Ruiz, pittura ad olio con il Cristo morto e suoi atti è opera del sig. Girolamo Muziani, l'arco poi con i suoi pilastri a olio in essa cappella è opera di Federico Zuccaro, detta cappella fu fatta dall'Abbate Ruiz, deputato della nostra congregazione che la fornì di tutte sorte de suppellettili......
4) la quarta, cioè S. Margherita pittura a olio è opera del sig. Annibale Caracciolo (33) Bolognese fu fatta dal sig. Bombace, deputato della nostra congregazione......
5) la quinta, cioè la cappella della S.ma Annunziata, fatta dal Rev.mo mons. Canuti per la devozione concipita di questa chiesa.....
6) la sesta, cioè S. Giovanni Battista a olio è opera del sig. Marcello Venusto.....
Dalli lati dell'altare maggiore vi sono dipinti i gloriosi principi degli Apostoli, Pietro e Paolo perchè questa nostra chhiesa fu consegnata li 18 di novembre cioè nell'anniversario della dedicazione della Basilica di S. Pietro e Paolo; S. Agostino dalla banda del coro nuovo vi fu dipinto perchè le monache son dell'ordine e regola di detto santo; S. Romano dall'altra parte della grata, come S. Sisinio e S. Saturnino dalle bande dell'altra grata del coro basso sono dipinti perchè i loro corpi sono sepolti in questo oratorio.
I putti sotto le suddette figure dalle bande delle grate e cori sono pitture e opera di Raffaele da Reggio.
La prigionia di S. Caterina, levata tutta intera per fare la grata del coro nuovo sopra la sagrestia, fu collocata sopra la porta maggiore della chiesa ed il Crocefisso fu levato dal trave che stava sopra i pilastri della balaustrata del presbiterio fu messo sopra il cornicione e grata del coro alto dove si canta l'officio.
Poichè i corpi dei predetti tre santi Romano, Sisino e Saturnino martiri con altre sante reliquie, poco decentemente e meno sicuri, si conservano nella sagrestia della chiesa esteriore, spesso in potere dei sagrestani, chierici e laici, fu presa risoluzione di far ingrandire la già costruita cameretta per la devozione del Bambino Gesù ed accomodare nello stesso muro varie finestre e nicchie per ivi conservarle più decentemente. Fu dunque ingrandita, dipinta, indorata e ornata con la continua assistenza, ai maestri che vi lavoravano, del sagrestano, del cappellano ecc., l'anno 1632.
Compito il tutto, fu stabilito il giorno per la translazione dei corpi non solo dei tre santi ma per le seguenti reliquie donate alla chiesa il giorno 18 di ottobre 1632: cioè il Legno della SS.ma Croce di N.S. Gesù Cristo, il Velo con il quale la Vergine ricoprì il nato Dio...... che fu il giorno della domenica delle Palme, 20 di marzo 1633.......
Et avendo sotto il dì 27 di luglio 1633 il medesimo don Giovanni Battista Brancadoro similmente per sua devozione conseguito alcune altre sante reliquie della ven. chiesa di S. Maria della Vittoria ed in particolare di S. Caterina Vergine e martire, come dalla testificazione del padre Fra Romualdo di S. Giovanni Evangelista, carmelitano scalzo allora sagrestano di detta chiesa, dategli del rev. Fra Domenico di Gesù Maria.......
La quale reliquia dopo varie vicende descritte fu donata al monastero e posta nella stessa stanza in clausura dove erano custodite le altre reliquie di santi."
Seguono alcune volontà del donatore tra cui quella che la reliquia non fosse mai, per nessuna ragione, mossa dalla stanza della clausura tranne il giorno della festa di S. Caterina, in cui poteva essere esposta in chiesa. In tale giorno, come si è accennato altrove, si svolgevano solenni cerimonie con la partecipazione del cardinale protettore, di altri porporati, di tutti i confratelli, delle zitelle e delle monache.
A proposito del bizzarro campanile, costruito forse su una torre preesistente e dove il cardinale Cesi fece collocare alcune campane fatte venire appositamente dalla Germania, nel 1771 essendo pericolante, fu interpellato l'architetto Nicola Giansimoni il quale suggerì alcuni semplici accorgimenti per il ripristino e una buona conservazione (34).